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Il museo delle Civiltà di Roma toglie il velo dal colonialismo italiano

Arriva il riallestimento delle collezioni di oggetti depredati in Africa per capire la storia senza “opacità”


È tempo di decolonizzazione culturale, dopo che a livello fattuale è avvenuta diversi decenni fa. D’altra parte, è anche uno dei focus della Biennale di architettura di quest’anno, voluto dalla curatrice per metà ghanese Lesley Lokko. Con il titolo di Museo delle Opacità, dallo scorso 6 giugno, il museo delle Civiltà di Roma ha presentato il nuovo capitolo dedicato al riallestimento in corso delle collezioni e delle narrazioni museali. Si tratta di un nucleo di opere e documenti delle collezioni dell’ex museo Coloniale della Capitale, inglobate in quelle del museo delle Civiltà nel 2017 e ora soggette a una ricatalogazione, che vengono fatte dialogare con opere contemporanee. Tra queste ultime ci sono anche nuove acquisizioni avvenute grazie al bando Pac-Piano per l’arte contemporanea del ministero della Cultura, e nuove produzioni realizzate attraverso processi di residenza nel contesto di Taking Care-Ethnographic and World Cultures Museums as Spaces of Care, cofinanziato dal programma Creative Europe dell’Ue.

L’“opacità” ha un doppio significato: da un lato si riferisce, letteralmente, al velo opaco di un oblio doloso caduto sull’epoca coloniale della storia italiana, che rende ancora poco noti fatti, cifre e nomi dei protagonisti. Dall’altro, l’opacità è quella teorizzata dal poeta e saggista Édouard Glissant (Sainte-Marie, Martinica, 1928-Parigi, 2011) – i cui scritti sono stati fondamentali per lo sviluppo del pensiero post e decoloniale contemporaneo – che aveva partecipato nel 1959 al secondo congresso mondiale degli scrittori e artisti neri organizzato presso l’Istituto Italiano per l’Africa di Roma (ente cui nel 1956 finirono le collezioni del museo Coloniale di Roma).


L’opacità, per Glissant, è appunto il diritto di ogni persona di non far soggiacere la propria identità a criteri quali “accettazione” o “comprensione”, che sarebbero gesti di appropriazione e di classificazione unilaterali.


Accettando invece il principio della “condivisione”, che porta ad assumere e condividere identità autonome e specifiche, originate da se stessi e non dagli altri. È con questo punto di vista che il museo delle Civiltà ha voluto condividere con cittadini, gruppi collettivi e comunità, artisti, curatori, ricercatori le proprie riflessioni su come interpretare e riallestire una selezione di opere e documenti delle collezioni dell’ex museo Coloniale. Reperti che testimoniano la quasi secolare storia coloniale italiana in Africa (1882-1960) e che furono all’inizio musealizzati a scopo di propaganda nella creazione degli immaginari e delle politiche coloniali. Utilizzando un metodo di ricerca “plurale” e “partecipato”, il museo delle Civiltà intende fare i conti con il proprio ruolo in questa vicenda storica, simboleggiato da circa 12mila oggetti – reperti archeologici, opere d’arte, manufatti artigianali, merci, sementi, strumenti scientifici e tecnologici, carte geografiche e dispositivi allestitivi – che dal 1971, anno della chiusura, sono rimasti oltre 50 anni in deposito. Ciò che ha agevolato una rimozione collettiva della storia coloniale italiana, ma anche una sua ricercata nuova contestualizzazione nel presente. C’è dunque una potenzialità rigenerativa di queste stesse collezioni, una volta messe in dialogo con opere d’arte e documenti contemporanee. Se insomma all’epoca queste opere servirono alla contrapposizione, oggi possono funzionare per un incontro fra soggetti e culture. Il Museo delle Opacità è a cura di Gaia Delpino, Rosa Anna Di Lella, Matteo Lucchetti con la supervisione generale Andrea Viliani. E si avvale di interventi dei research fellow del museo stesso Sammy Baloji e Daar (Sandi Hilal e Alessandro Petti).

In copertina: Twenty Nine Studio / Sammy Baloji, Ph: ©Andrea Avezzù

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