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I mestieri del cinema: l’attrice

Barbara Folchitto e il “lavoro più bello del mondo” dal trucco in camerino alla recitazione davanti alla macchina da presa


Occhi grandi, un sorriso sbarazzino, la mente che corre veloce come fanno, a volte, le sue parole. In altri momenti è come le nuvole: si ferma e aspetta, riorganizza le idee. Barbara Folchitto, attrice, torna indietro nel tempo per cercare di raccontare il suo lavoro e la sua evoluzione da quando, a 19 anni, ha avuto la prima occasione di mettersi alla prova. «Un’opportunità grandissima. Ho lavorato in “Lo zio indegno” con la regia di Franco Brusati e Vittorio Gassman e Stefania Sandrelli come colleghi» racconta Barbara.

© Gabriele Gelsi

A strutturarla Londra e la Royal Academy of Dramatic Art, dove gli ex allievi con cui confrontarsi erano Anthony Hopkins e Emma Thompson, ma anche Berlino, Venezia, Napoli. Tanto teatro – che resta una passione – , Meryl Streep come icona e un amore per i contrasti che le piace sperimentare anche su se stessa nella ricerca di ruoli “da cattiva” a sbalzo su un viso che fece rispondere con un “sei bellissima” in un famoso spot Telecom di fine anni ’90.

Non sempre le riesce, soprattutto per il “mercato” italiano per cui la sua immagine risponde – quasi sempre – a quella della maestra, dell’architetto oppure ancora della depressa o della malata terminale. «Senza trucco in effetti ho delle occhiaie di tutto rispetto», scherza l’attrice prima di addentrarsi in una riflessione più ampia sul cinema italiano oggi e, più in generale, sulla cultura. In mente quel “tu puoi fare tutto” che il regista sloveno Tomi Janežič le ha posto come sfida, ricordandole che un attore è tale se ha raccolto molto dalle esperienze in teatro e nella propria esistenza, se è stato capace di “costruirsi” portando nel proprio percorso personale quanto e quanti ha incontrato.


Tutti gli attori iniziano a pensare di voler fare l’attore da bambini perché si prova un enorme piacere a recitare: si gioca alla messa in scena


© Pierpaolo Redondo

«Ho chiaro – racconta Barbara – il ricordo di me e mia sorella nell’armadio dei nonni mentre cerchiamo di trasformarci…».
Ora che quel “gioco” è diventato una professione, il passaggio più ostico è la preparazione, lo studio della parte. Un paio di settimane per studiare nei ruoli più piccoli, poi si va sul set. Un lavoro che «mi piacerebbe fare con il regista o lo sceneggiatore, con dei tempi di elaborazione maggiori: al massimo, invece, si ottiene la lettura a tavolino insieme». Poi c’è appunto il set, il camerino, il rapporto con i colleghi. Il film che prende vita in fase di montaggio e poi, solo poi, l’esposizione al pubblico del proprio lavoro.
Nel tempo l’idea di cinema che le ha fatto chiudere una valigia e partire non si è trasformata: «quel sogno è rimasto», conferma Barbara, anche se adesso, consiglierebbe a chi volesse intraprendere il mestiere dell’attrice di studiare tanto e poi andar via.

© Andrea Calandra

Perché è difficile trovare in Italia quel lavoro collettivo che è evidente nei Paesi in cui l’industria cinematografica è strutturata come un reale segmento di mercato.
«Una grande delusione e anche una gran noia perché dove c’è industria c’è anche spazio per proporre idee, che poi magari prendono forme diverse in documentari, film, serie anche televisive; sono occasioni per affrontare temi con fantasia, coraggio, trasversalità».

Industria anche nel senso di maggiori produzioni, che ovviamente significa anche capacità del settore di richiamare attenzione e di intervenire sull’atteggiamento culturale. Come conseguenza, la possibilità di avere un buon numero di drammaturghi che scrivono e poi di attori che interpretino le sceneggiature. «Non è sempre stato così – riflette – e lo dico con un dato d’esperienza: fino a 15 anni fa in Italia avevamo tantissime occasioni di lavoro che ora si sono azzerate. Il Paese è pieno di persone serie e professionali ma manca l’approfondimento, la capacità di andare oltre il marketing e cercare i contenuti, lo sviluppo delle idee».

Barbara è un fiume in piena mentre riflette sul ruolo centrale di approfondimento ed elaborazione che è solo della cultura – «non della politica che si deve occupare seriamente dei cittadini e delle loro possibilità di crescita» – e arriva a immaginare un ruolo nella formazione permanente dei cittadini proprio attraverso cinema e teatro.

«Il problema del nostro lavoro è la produzione di un bene immateriale mentre serve la visione di una cultura come volano di crescita personale, intellettiva e anche più “felice” perché consapevole: Dario Fo che vince il Nobel fa diventare “nostro” idealmente quel premio, un patrimonio di tutta l’Italia»

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