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Il viaggio “breve” tra uomo e robot

I robot umanoidi sfruttano l’intelligenza artificiale per diventare “pensanti” e ridurre il confine emotivo con le persone


iCub, il robot protagonista del test emotivo dell’università di Duisburg-Essen © Lorenzo Natale

Si chiamano così: robot umanoidi. “Creature” ibride, mezze macchine mezzi uomini. Se l’hardware è il corpo e l’anima è il software, è nel cervello – alias nell’intelligenza artificiale – che si compie l’evoluzione della specie.

Nelle vene scorrono algoritmi e miliardi di dati, non solo e non più per abilitare i robot a svolgere funzioni. L’intelligenza artificiale è in grado di interpretare le informazioni, di reagire ad esse, di imparare e di comportarsi di conseguenza e persino di elaborare inedite soluzioni. Insomma, sempre più macchine “pensanti”, capaci di fornire risposte che nemmeno la mente umana è in grado di svelare. Non nell’arco di millesimi di secondo e spesso nemmeno in tempi ben più lunghi.

Sempre più somiglianti all’uomo nelle fattezze fisiche, i robot di nuova generazione sono persino in grado di provare, o quantomeno di simulare, emozioni. Al punto da confondere l’uomo stesso, da generare empatia, da provocare reazioni inaspettate. Ne è prova il risultato di un esperimento condotto dall’università tedesca di Duisburg-Essen: a 89 volontari è stato semplicemente chiesto di entrare, uno per volta, in una stanza e di spegnere un robot. A 43 di loro non era stato specificato però che il robot in questione – “istruito” dal team di ricercatori – li avrebbe pregati, persino implorati, di lasciarlo “vivere”. L’inattesa richiesta ha provocato reazioni altrettanto inattese: 13 le persone che hanno deciso di non spegnere il robot; gli altri lo hanno fatto, ma non immediatamente.

Pepper, il primo “social robot”

 

Il risultato dimostra quanto il confine fra uomo e macchina si stia facendo sempre più labile. E che apre una riflessione, sociologica ed etica, sulle implicazioni e sugli impatti dell’intelligenza artificiale e della nuova generazione di robot “emotivi”. Si pensi ad esempio ai giocattoli per bambini: bambole e peluche sono già in grado di parlare e persino di rispondere – è il modello “Siri” – e presto saranno capaci anche di “reagire”, imparando dalle parole e dai comportamenti dei più piccoli ed entrando sempre più in sintonia con loro.

Gli impatti positivi sono altrettanto innegabili: i robot umanoidi possono diventare “assistenti” fondamentali per i portatori di handicap e gli anziani e sono in grado di essere di ausilio nell’ambito di patologie, come l’autismo, proprio grazie all’empatia generata dall’aspetto e dai comportamenti “umani”.


I robot umanoidi “vivono” già fra noi, e ce ne sono alcuni talmente intelligenti e umanizzati da aver fruttato premi e riconoscimenti ai loro inventori.


Nao © Xavier Caré

L’Italia è in pole position in quanto a “creature” partorite. È italiano Pepper, il primo “social robot” ideato dal Laboratorio di Robotica Cognitiva e Social Sensing dell’Icar, l’Istituto di calcolo e reti ad alte prestazioni del Cnr e prodotto da Softbank Robotics. Ed è italiano il “cervello” di Nao, il primo robot umanoide – anch’esso prodotto da Softbank Robotics – in grado di interagire in piena autonomia con l’ambiente circostante. A realizzarlo un team congiunto dell’Università di Pavia e Politecnico di Milano nell’ambito del programma europeo Human Brain Project. E, ancora, nell’ambito dello stesso progetto Ue è stato creato iCub, robot dalle fattezze di un bambino di quattro anni messo a punto dall’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit), già adottato da una ventina di laboratori mondiali di ricerca e protagonista del test “emotivo” dell’università di Duisburg-Essen.

foto in copertina © Diarmuid Greene

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