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Moda circolare, il manifesto della fondazione Ellen MacArthur insieme a H&M e Nike

Verso un’economia che risparmia e ricicla. Rivoluzione necessaria per il settore tessile


Ripensare la moda del futuro, spingendo i designer e le grandi case di abbigliamento a realizzare prodotti innovativi, di tendenza e a basso impatto ambientale. Questo uno degli obiettivi della fondazione Ellen MacArthur, nata nel 2010 a Chicago con l’intento principale di accelerare la transizione verso un’economia circolare, che nelle scorse settimane ha pubblicato il report ‘A New Textiles Economy: Redesigning Fashion’s Future’. Realizzato in collaborazione con grandi marchi come H&M e Nike, dopo un’attenta analisi dei costi economici, ambientali e sociali dell’attuale sistema produttivo, il documento propone una nuova visione per un settore, che gioca ormai un ruolo fondamentale nell’economia mondiale con un giro d’affari annuo di oltre 1 trilione di euro. “Il report getta le basi per una nuova cultura e intende creare una strategia condivisa per un’industria della moda circolare” ha commentato Karl-Johan Persson, Ad del gruppo H&M.

Il punto di partenza. Secondo le ricerche del gruppo statunitense l’attuale metodo di produzione dell’industria dell’abbigliamento è totalmente “lineare”, non prevede il riutilizzo delle materie: una grande quantità di risorse non rinnovabili vengono infatti utilizzate ogni anno per produrre vestiti che spesso sono usati solo per un breve periodo di tempo e che vengono successivamente buttati e smaltiti.

Il fenomeno del fast fashion. Con l’avvento della moda low cost, promossa dai grandi brand internazionali, la vendita dei capi di abbigliamento è raddoppiata negli ultimi 15 anni passando da 50 miliardi a oltre 100 nel 2015; è invece diminuita la media di utilizzo di ogni singolo abito, passando dalle 200 volte degli anni 2000 ai 160 di oggi. Dati alla mano, ogni anno un valore totale di circa 400 miliardi di euro andrebbe quindi perso a causa della mancanza di un adeguato sistema di riciclo di stoffe e vestiti che potrebbero essere rigenerati.

I costi ambientali e sociali. Alle perdite economiche si aggiungono anche i danni all’ecosistema, quantificabili, per esempio, in 1,2 miliardi di tonnellate di Co2 emesse ogni anno, che superano quelle prodotte dai voli intercontinentali e dalle spedizioni marittime messe insieme. Non solo. Le sostanze utilizzate per trattare i vestiti contribuiscono a rendere l’attuale modello di produzione poco sostenibile anche a livello sociale, sia per chi lavora i materiali sia per chi li indosserà una volta completati.

Dove puntare e come si può invertire la rotta? Sarebbero quattro le “ambizioni” della Fondazione per una nuova economia tessile. “Innanzitutto, un tessuto economico innovativo deve partire da materie prime sicure ed ecologiche, che non abbiano controindicazioni né per l’ambiente né per la salute – si legge sul report -, come è invece per le microfibre plastiche che vengono riversate nell’ecosistema e negli oceani una volta utilizzate”.

In un teorico processo virtuoso, il passo successivo sarebbe quello di trasformare il modo in cui gli abiti sono disegnati, venduti e usati, per far si che ogni prodotto inizi ad essere percepito come qualcosa di duraturo, e non usa e getta. A seguire, determinante diventerà il riciclo dei capi di abbigliamento anche investendo in nuove tecnologie in grado di migliorare la qualità dei vestiti nati da processi di riuso. Infine, nel caso in cui un’industria richieda espressamente materiali ‘vergini’, si consiglia di puntare su fibre e sostanze rinnovabili, per esempio provenienti da agricoltura rigenerativa, una tecnica di coltivazione non intensiva e che punta a far tornare fertile il terreno danneggiato o sovrautilizzato in precedenza.

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