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Patrimonio urbano e performing arts, l’identikit dell’impresa culturale italiana

I protagonisti? I giovani e le donne grazie a creatività, passione e capacità progettuale


Il Colosseo, gli Uffizi, Pompei o piazza San Marco. Alla domanda su quali siano gli elementi del nostro patrimonio con più prospettive di crescita, non solo economica, i più risponderebbero citando i monumenti simbolici dello Stivale. Non a torto va detto, visto che sono oltre 1,5 milioni gli occupati del comparto con un giro di affari che si aggira intorno ai 90 miliardi di euro. Considerando poi l’effetto moltiplicatore dell’indotto, si arriva a 250 miliardi, ovvero il 16,7% del PIL nazionale.


Negli ultimi anni, grazie anche alla spinta di privati, organizzazioni no profit e istituzioni
, si sta assistendo a un processo di innovazione e trasformazione del settore che poggia le sue fondamenta su due elementi: i beni culturali e le cosiddette performing arts (teatro, musica e danza). Come evidenziano i numeri, che non possono comunque spiegare tutte le sfaccettature di questo processo, quello della cultura si sta trasformando in un comparto economico strategico per l’Italia. Per spiccare definitivamente il volo però, ha bisogno di rompere le catene della sussidiarietà e dell’assistenzialismo e passare ad un approccio più competitivo e imprenditoriale.

Proprio questa necessità è stata la spinta che ha portato alla genesi del libro ‘La (quasi) impresa culturale’, edito dal Gruppo 24 Ore e curato da Hangar, progetto dell’Assessorato alla Cultura e Turismo della Regione Piemonte. Obiettivo della pubblicazione è quello di fornire competenze progettuali a un vasto panorama di realtà legate a gestione e fruizione del nostro patrimonio, oltre che alla produzione di performing arts e arti visive.


Ma perché, quasi, impresa? Il motivo è presto detto: si tratta della parte economicamente più debole del sistema culturale e creativo italiano, con 10 miliardi prodotti sui 90 totali, ma che nonostante la mancanza di un approccio imprenditoriale presenta il maggior potenziale di crescita.


“Si sta facendo strada un nuovo modello – racconta Giovanni Campagnoli, esperto di project management di Hangar –, a metà fra il profit e il no profit. Il problema è la sua sostenibilità dato che il volontariato ne rappresenta sia il limite che il punto di forza. È un sistema che nasce da ‘dentro’, c’è grande passione in chi lavora in questo settore e ciò può rappresentare una risorsa straordinaria per l’economia italiana”.

A guidare questa trasformazione sono soprattutto i giovani con un alto livello di istruzione e le donne. La loro creatività, unita alla passione e alla capacità progettuale, li rende i principali innovatori del settore. Da sottolineare poi come la presenza femminile sia centrale poiché, sempre più spesso, viene percepita anche dalle banche come un elemento garante di una maggiore affidabilità, quindi un plus per poter accedere a forme di microcredito.

Le (quasi) imprese culturali possono contare quindi su un momento favorevole, testimoniato dall’esistenza di diversi incentivi dopo un lungo periodo di calo degli investimenti e dell’attenzione da parte delle istituzioni e dei privati. Ci sono fondi europei dedicati e, alcuni attori pubblici come il Mibact o l’Agenzia del Demanio, svolgono un ruolo più propulsivo. Rimane però un ostacolo alla piena presa di coscienza del proprio ruolo e delle proprie potenzialità di queste realtà, ovvero la mancanza di una legge di settore. “Una volta che il legislatore riconoscerà loro uno status giuridico, definendo confini e raggio d’azione, sarà possibile – si spiega in questo rapporto – puntare ad una evoluzione di tutte quelle organizzazioni che ogni giorno lavorano nel campo dei beni culturali e delle arti”.

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