Al Belvedere della Reggia di Monza apre la prima grande mostra in Italia dedicata all’artista americano. Oltre 200 opere tra fotografie, dipinti e riviste
Un uomo comune, umile, povero, che, dalla sua “clandestinità” ritrae il mondo con la sua macchina fotografia. Un pittore, un artista, un fotografo, ma anche un poeta. Saul Leiter è stato tante cose, ma sopra tutte uno dei grandi maestri della fotografia del ‘900. Nato a Pittsburgh nel 1923 da una famiglia di ebrei ortodossi, il padre rabbino, la sua vita sarà segnata dal conflitto irrisolto con la figura paterna, che mai potrà perdonargli di aver deciso di infrangere il secondo comandamento: non rappresentare il mondo. Un tradimento, quello del giovane Saul, appassionato di pittura sin da bambino, sostenuto dalla madre, che per prima gli regalerà una macchina fotografica, quasi a voler segnare il suo destino. Ma anche una rottura, che spingerà Saul a trasferirsi a New York all’età di 23 anni – città che non lascerà mai più – e all’inizio a vivere di stenti e in povertà, dormendo anche per strada. Un reietto, ma anche un uomo completamente libero che lo porterà a produrre un immenso archivio fino alla sua morte, avvenuta nel 2013, nel suo appartamento nell’East Village.
Oggi, oltre duecento opere sono raccolte nella prima mostra dedicata al fotografo americano mai realizzata in Italia, Saul Leiter. Una finestra punteggiata di gocce di pioggia, che aprirà domani, 1° maggio, al Belvedere della Reggia di Monza
Un percorso che si compone di 126 fotografie in bianco e nero, 40 fotografie a colori, 42 dipinti e rari materiali d’archivio, realizzato da Vertigo Syndrome in collaborazione con diChroma photography e la curatela di Anne Morin, che insieme avevano già portato nel capoluogo brianzolo la retrospettiva su Vivian Maier – appena conclusasi con un record di visitatori, quasi 40mila – e il patrocinio del Comune di Monza. L’esposizione si articola su tre diversi assi: la fotografia in bianco e nero, quella a colori, quella ritoccata e i dipinti di Leiter. Una novità, anche quella dell’allestimento, che interseca questi tre piani e che affianca grandi immagini, come quelle che Leiter proiettava a casa sua quando le mostrava ai suoi amici, a ritratti di piccole dimensioni. Il fotografo americano, autodidatta, ambidestro, dislessico, capace di leggere da destra verso sinistra e viceversa grazie alla sua doppia cultura anglo-ebraica e ai suoi studi nelle scuole rabbiniche, farà parte anche del gruppo degli Irascibili, «artisti ebrei che troveranno nell’astrattismo una via d’uscita, una liberazione dal secondo comandamento» ricorda ancora la curatrice. «Questa sua prima battaglia contro l’autorità paterna lo fece diventare un “clandestino” – spiega Morin –. La sua frase “ce l’ho fatta a non avercela fatta nella vita” è rappresentativa del suo culto della libertà, di liberarsi dal diktat di non poter rappresentare il mondo». Un uomo libero anche di scegliere cosa e come ritrarre, in una commistione tra vita privata e attività professionale, che lo porterà in aperto contrasto con gli editor delle riviste di moda patinate con cui inizia a collaborare all’inizio della sua carriera, come Esquire e Harper’s Bazaar.
La sua clandestinità, il suo rimanere nascosto e nell’anonimato offrendo il suo punto di vista sul mondo, che a volte è stato confuso con voyerismo (definizione che Morin rifugge), lo porterà a ritrarre una New York vista dalla strada, della quotidianità, senza «nessun chiacchiericcio», in aperto contrasto con la verticalità, la centralità e l’imponenza della Grande Mela. Sono quindi donne, uomini, bambini, anziani, ma anche strade, macchine, grattacieli i soggetti dei suoi ritratti, spesso attraverso finestre appannate, tessuti e condizioni meteorologiche che altri fotografi evitavano, abbracciando così l’ostruzione. «Le sue fotografie più piccole sono come dei piccoli haiku rovesciati – spiega Morin – delle riflessioni e rifrazioni che permettono di specchiarsi nelle immagini stesse». E se Leiter è stato definito un pioniere della fotografia a colori, tecnica che inizia a utilizzare intorno al 1948 e che approcciava dal punto di vista di un pittore, quindi dando materialità e tessitura alle immagini, secondo Morin sono le sue immagini in bianco e nero, spesso passate in secondo piano, ad essere le più interessanti.
«Affrontando la fotografia in bianco e nero Leiter diviene quasi un chirurgo che va a scavare nel reale. Non è un lavoro semplicemente lineare e aneddotico, ma di estrema profondità»
Ispirato dall’impressionismo, negli Anni ’50 comincia a esplorare il rapporto tra pittore e modella, delle quali ritrae i visi ed esplicita i nomi, e negli Anni ’70 a dipingere le sue proprie fotografie. Parte di questa produzione è raccolta in una sezione della mostra, chiamata In my room, che ritrae anche in modo spaziale l’intimità della stanza di Leiter.
Come nel caso di Vivian Maier, è la cristallizzazione della quotidianità, la fissazione di un movimento, sempre ritraendo con profonda delicatezza e poesia, a rendere i loro scatti immortali. Una vita costellata da dicotomie, tra mondo sacro e profano, tra bianco nero e colori, tra orizzontalità e verticalità. E un colore che, anni dopo, ispirerà il film “Carol” con Cate Blanchett e Rooney Mara.
Saul Leiter. Una finestra punteggiata di gocce di pioggia rimarrà aperta fino al 27 luglio. Per tutta la durata della mostra saranno organizzati workshop artistici, conferenze sulla storia della fotografia, laboratori fotografici e pittorici per i bambini e altre varie iniziative strettamente collegate agli scatti e alla visione del mondo di Saul Leiter.
In copertina: © Saul Leiter Foundation