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Buenos Aires, Los Angeles, Amsterdam, Shanghai e Singapore. In viaggio per raccontare il post-lockdown

Una finestra sul mondo, da chi ancora non ha raggiunto il picco Covid19 a chi testa nuove forme di normalità


Continua il racconto di Pantografo Magazine dalle diverse città del mondo, costrette ad un lockdown quasi totale per le misure di contenimento dell’epidemia da Covid 19. Città che, come visto anche dall’articolo pubblicato ieri, hanno implementato anche in modo molto diverso tra loro le restrizioni sociali e fisiche con le quali la pandemia ci ha obbligato a convivere.

Amsterdam. Foto: Delia Treelove

In questa seconda puntata della narrazione della fase 2, la redazione di Pantografo ha raccolto i contributi di cittadini italiani e stranieri che vivono in Argentina, Paesi Bassi, Cina, Singapore, Stati Uniti, Svezia. In alcuni di questi paesi in realtà ancora non si parla di riapertura, da una parte perché la pandemia non ha ancora raggiunto il picco (Argentina), dall’altra perché il numero di casi è improvvisamente aumentato (Singapore). Alcuni di loro hanno accettato di raccontare le loro esperienze scegliendo di utilizzare uno pseudonimo, a testimonianza del fatto che la pandemia di Covid 19 non ha limitato solo la libertà di movimento.

Buenos Aires. Foto: Liliana Canepa

Buenos Aires. Il primo a parlare con noi è stato Esteban Vago, ingegnere industriale che vive nella capitale argentina con sua moglie Catalina Porras, psicologa, e le loro due figlie piccole. Il totale di contagi nel paese al momento è di 4.770 e di 246 morti. «La quarantena qui è iniziata il 20 marzo – spiega Esteban – ed al momento è stata estesa fino al 10 maggio. Stanno però cercando di rendere flessibili le misure, escludendo dal lockdown alcune categorie di industrie perché possano seguire con le attività lavorative». Anche per quello che riguarda il distanziamento sociale, se da una parte a fine aprile il governo nazionale guidato da Alberto Fernández aveva dato la possibilità ai bambini di uscire per un’ora al giorno a non più di 500 metri da casa, il sindaco di Buenos Aires ha invece deciso di non allentare le misure di contenimento. «Lo stesso hanno fatto i sindaci degli altri centri urbani con più di 500.000 abitanti – continua –. Ovviamente la situazione in casa con dei bambini piccoli si sta facendo sempre più difficile». Le scuole sono chiuse, i trasporti internazionali, come quelli interni tra le diverse regioni, sono sospesi e lo rimarranno fino a settembre. Un blocco delle frontiere reso possibile dal fatto che l’Argentina è una repubblica federale, e quindi i governatori delle singole regioni hanno potuto chiudere i confini con le “province” vicine secondo le criticità locali.

Lo stato ha stanziato un sussidio di 10.000 pesos per gli autonomi a basso reddito per il mese di aprile e prestiti a tasso zero per quelli con un reddito più alto e con alcuni dipendenti

Esteban Vago

A questo riguardo Esteban spiega che «possono uscire solo coloro che hanno un permesso speciale per motivi di lavoro o necessità. È inoltre obbligatorio uscire con la mascherina per andare al supermercato o in farmacia, pena una sanzione che va dai 10.000 agli 80.000 pesos (tra 140 e 1.000 euro al cambio attuale)». La pandemia quindi non ha fatto altro che inferire un altro duro colpo all’economia dell’Argentina, che si trovava già in quello che viene definito un “default tecnico”. «Lo stato tuttavia – aggiunge l’ingegnere –, ha stanziato un sussidio di 10.000 pesos per gli autonomi a basso reddito per il mese di aprile, e forse prolungato anche per maggio, e prestiti a tasso zero per quelli con un reddito più alto e con alcuni dipendenti». Sia Esteban che sua moglie possono lavorare da casa, infatti lei ha iniziato a seguire alcuni suoi pazienti tramite internet, ma la situazione è ad ogni modo complicata. Tuttavia Catalina, attraverso il suo account Instagram professionale, organizza e promuove anche corsi e laboratori per l’infanzia, per madri in gravidanza, e sull’educazione dei bambini in generale.

Los Angeles. Foto: Federica Maltese

Los Angeles. Dalla California ci parla Federica Maltese, italiana di Viterbo con un dottorato in scienze farmacologiche che da circa 10 anni vive a Los Angeles con il marito, medico anestesista, e i loro due figli. Anche in questo caso, come è stato riportato da diversi media nei giorni scorsi, le misure di contenimento adottate negli Stati Uniti sono variate molto da stato a stato. In California il totale dei casi ha superato ieri le 50.000 unità, con più di 2.000 decessi. «Il lockdown nello Stato della California è stato imposto ufficialmente a partire dal 19 Marzo – racconta Federica –. Per la mia famiglia era già iniziato però da una settimana, quando insieme a mio marito avevamo deciso di non mandare i nostri figli a scuola e limitare le nostre uscite da casa. Eravamo emotivamente vicini all’Italia, ovviamente, e provenendo entrambi da formazione nell’ambito sanitario capivamo l’importanza di un lockdown tempestivo». Le misure sono state applicate a tutti i settori, ci spiega, a parte quelli essenziali. Come in Italia, anche in California è stato richiesto di procedere con lo smart working laddove possibile. «Le spiagge sono chiuse così come i parchi pubblici e tutti i sentieri escursionistici sulle montagne della Contea – continua –. Ma le persone possono ancora uscire di casa per fare una passeggiata, una corsa o un giro in bicicletta nel loro quartiere. Per una città come Los Angeles, in cui ci si muove solo sulle proprie autovetture, è stato un grosso cambiamento». Annunciando le restrizioni ai cittadini a marzo, il governatore della California Gavin Newsom aveva parlato di «dire la verità ai cittadini» e della necessità di «riconoscere la realtà» se si voleva abbattere la curva dei contagi.


Federica dice che anche nel loro quartiere si sono visti da subito gli effetti del contenimento.


«In un tranquillo quartiere residenziale come quello in cui viviamo ci sono passeggiatori e corridori in giro, famiglie con bambini in bicicletta, ma quasi tutti hanno il volto coperto dalle maschere e mantengono i sei piedi di distanza dalle persone non appartenenti al proprio nucleo familiare». E riguardo a quelle immagini circolate alcuni giorni fa sui telegiornali italiani con le spiagge della città prese d’assalto, Federica aggiunge, «da domenica 26 aprile la contea limitrofa alla nostra ha dato ordinanza di riaprire le spiagge, e purtroppo molti abitanti hanno deciso di affrontare il viaggio da LA per andare a trascorrere qualche ora di relax al sole». Date ufficiali per la riapertura ancora non ci sono, ma da alcuni giorni il traffico sembra essere aumentato anche nel loro quartiere, segno forse che le persone iniziano a soffrire della quarantena forzata.

Amsterdam. Foto: Delia Treelove

Amsterdam. I Paesi Bassi sono il paese europeo che, insieme alla Gran Bretagna, ha suscitato reazioni molto controverse in un primo momento, quando il governo nazionale aveva parlato dello sviluppo della famosa “immunità di gregge” per combattere la pandemia. Tuttavia, a causa del continuo aumentare dei contagi, a fine marzo anche il premier olandese Mark Rutte è dovuto ricorrere a delle misure di contenimento, senza però arrivare mai a un lockdown totale. Al momento sono confermati circa 40.000 casi con 5.082 decessi. Da Amsterdam ci parla Delia Treelove (nome di fantasia), professoressa in uno degli atenei della capitale olandese. «In Olanda le prime misure di contenimento sono state prese all’inizio di marzo, e riguardavano solo la provincia del Brabante (nel sud del paese ndr), la prima ad essere colpita. Successivamente sono state estese a tutto il paese – ci spiega –. Sono stati chiusi tutti gli edifici pubblici, incluse le biblioteche e i musei, che per me in qualche modo rappresentano l’essenza di Amsterdam». Sul fronte scuola, ci racconta che le università sono state le prime a chiudere i battenti e a spostare le classi online, ma che l’hanno fatto in modo autonomo. «Successivamente sono stati ufficialmente chiuse tutte le scuole. Poi è stata la volta delle palestre e dei grandi eventi». Sembra comunque che almeno gli istituti primari potranno riaprire a partire dall’11 maggio, anche se verrà parzialmente mantenuta la didattica a distanza.


Delia ci racconta inoltre che durante tutto il tempo della chiusura i trasporti pubblici sono rimasti in funzione.


«Le persone possono comunque uscire – aggiunge –, basta che mantengano la distanza di sicurezza. Diciamo che nel mio quartiere le persone hanno rispettato le regole. Ma è una parte della città con molto verde, ed è un quartiere mediamente benestante, per cui gli abitanti hanno avuto anche i mezzi economici per affrontare la quarantena». Ma, chiosa, «Credo che durante questi periodo quello che più abbiamo visto è stato il nascere di molte iniziative di volontariato, come per esempio il fare la spesa per le persone anziane – alle quali comunque erano riservati gli orari dalle 7 alle 8 del mattino nei supermercati – e tenere le lezioni di olandese per gli stranieri online». Un lato forse positivo in una situazione di grave emergenza sanitaria.

Ci spostiamo ora in estremo oriente, da dove abbiamo ricevuto due testimonianze da Shanghai e da Singapore. Entrambe le nostre “corrispondenti” hanno preferito usare uno pseudonimo.

Shanghai

Shanghai. Julia Stanford è una ricercatrice che da alcuni anni risiede a Shanghai. Dopo varie esperienze accademiche, oggi insegna in un importante ateneo della città cinese. Shanghai si affaccia sul Mare Cinese orientale e si trova a circa 800 km a est di Wuhan, l’epicentro dell’epidemia. «Direi che la cosa migliore che hanno fatto a Shanghai, non appena si è saputo di Wuhan, è stato di attuare immediatamente delle forti misure restrittive. I confini sono stati chiusi quasi subito, e sono stati istituti dei comitati di quartiere che si assicuravano che a chiunque uscisse o tornasse a casa venisse provata la febbre» ci racconta. «Anche i ristoranti, i bar e i negozi che erano rimasti aperti controllavano la temperatura corporea ai clienti – continua –. Le persone dovevano comunicare la propria posizione ed eventuali sintomi. Tutti gli edifici pubblici sono stati sottoposti a disinfezione». Riguardo alla fase 2, Julia dice «Quando hanno deciso di riaprire l’hanno fatto per gradi, sempre limitandosi o a un determinato settore, o a un gruppo di persone, controllando anche gli ingressi delle persone in città». Il numero di casi è stato molto limitato, come quello dei morti, forse un risultato delle misure attuate sin da subito dal governo locale. «Hanno concretamente impedito la diffusione del virus, nonostante alcune proiezioni avessero previsto che Shanghai sarebbe stata la città più colpita in tutta la Cina, a causa della sua altissima densità di popolazione (26 milioni di abitanti) e uno dei tassi più alti di immigrazione» puntualizza.

Ad oggi si è tornati quasi alla normalità, con attività, parchi, trasporti pubblici e università che hanno riaperto, «ma le persone sono ancora molto caute e continuano ad indossare le mascherine – dice –. Rimane la paura di una seconda ondata di contagi da Wuhan. E i viaggi dall’estero sono ancora sospesi».

Singapore. Foto: Anne-Marie Kun

Singapore. Contrariamente a quanto si pensi, nella città-stato asiatica un totale lockdown non è mai stato imposto fino a primi di aprile. Le misure intraprese dal governo di Singapore sono state dapprima improntante sul tracciamento e solo successivamente, con l’aumento della diffusione dei contagi, con la chiusura di tutte le attività. Al momento i casi registrati sono di circa 18.000 unità. Da qui ci parla Anne-Marie Kun, docente esperta di storia della Cina, in questi giorni in isolamento in casa sua. «Data la vicinanza geografica con la Cina, a Singapore le misure di restrizione sono state implementate subito, anche prima che qui succedesse qualcosa. Da gennaio in avanti – spiega – l’approccio è stato quello di tracciare i contatti e isolare». La situazione è rimasta sotto controllo fino agli inizi di marzo, con pochi casi registrati, ma è peggiorata con l’esplosione della pandemia in Europa e negli Stati Uniti. In quel periodo infatti «molti residenti sono tornati dall’estero, e molti di loro erano studenti che studiavano nel Regno Unito. All’inizio sono stati isolati a casa, e poi in strutture dedicate. Tuttavia, è stato possibile viaggiare fino all’inizio di marzo». «Più passava il tempo, più le misure si restringevano, ma non c’è mai stato un vero lockdown fino ad alcune settimane fa» continua.

Diciamo che nel ramo dei servizi siamo a un 15%-20% di apertura

Anne-Marie Kun

Riguardo ai ristoranti che erano rimasti aperti, racconta Anne-Marie che all’inizio all’entrata veniva misurata la temperatura corporea e all’interno erano state adottate misure di distanziamento tra i clienti. Veniva inoltre richiesto a ciascuno di compilare un modulo con gli ultimi viaggi intrapresi. «Le università e le scuole sono rimaste aperte fino a fine marzo – prosegue –. E i bar e altre attività in un primo momento permettevano il take-away. Adesso invece hanno deciso di chiudere. Diciamo che nel ramo dei servizi siamo a un 15%-20% di apertura». E tutti i nuovi casi registrati a Singapore nelle ultime settimane sono per lo più confinati nei dormitori dei lavoratori migranti impiegati nel settore delle costruzioni, che ospitano circa 320.000 persone. Nonostante questo, in tutto lo stato sono stati confermati solo 18 decessi, un numero veramente bassissimo. E secondo le ultime notizie che arrivano da Singapore, le misure di contenimento rimarranno in vigore fino al 1° giugno.

Svezia. Foto: Emma Sjögren

Infine, la Svezia, un paese europeo che ha adottato un approccio simile a quello dei Paesi Bassi, con restrizioni parziali, nessun vero lockdown attivo e molta fiducia nella cittadinanza per il mantenimento delle regole di distanziamento sociale. Dalla campagna del sud del paese, dove si sono temporaneamente trasferiti da Lund, ci hanno parlato Erik e Emma Sjögren, entrambi ricercatori universitari. «La maggior parte dei casi sono concentrati a Stoccolma – raccontano – ma ci sono casi anche nella regione di Malmö». «Questo perché nella provincia di Stoccolma a fine febbraio, durante le vacanze scolastiche invernali, molte persone sono andate a sciare nel nord Italia – spiega Erik –. Sembra che il virus si sia propagato così. Il primo caso è del 22 febbraio, il primo decesso del 19 marzo» continua. L’approccio “light” svedese è stato oggetto di diversi articoli, anche negativi, usciti sulla stampa italiana e internazionale, ma in realtà secondo Erik la situazione è più complicata. «Non è assolutamente un laissez-faire totale, ma non è neppure un lockdown imposto dallo stato, anche perché la costituzione svedese non permetterebbe di implementare una tale misura – ci dice –. Piuttosto, si basa su un’idea di guida e sull’affidarsi della politica alla comunità scientifica. Sono loro che intervengono alle conferenze stampa e spiegano i motivi delle norme adottate. Ci sono dei limiti e ci sono delle regole (di distanziamento sociale ndr), e alcune attività sono state chiuse perché non le rispettavano». Una fotografia sicuramente molto diversa da quella alla quale ci siamo abituati in Italia e che si basa in parte sulla fiducia reciproca tra cittadini e istituzioni. Emma aggiunge che, nonostante ci siano delle persone che ritengono la preoccupazione per l’epidemia una sorta di isteria collettiva, quando si incontrano comunque mantengono le distanze. Riguardo alle scuole, «le elementari e gli asili sono ancora aperti – aggiunge –. Le scuole superiori e le università sono chiuse dal 18 marzo, ma anche qui dietro “raccomandazioni” da parte dello stato, non hanno potuto chiudere completamente gli edifici. Le biblioteche per esempio sono rimaste aperte». In Svezia, come in altri paesi, si è passati quindi alla didattica a distanza. Tra le misure più “drastiche” adottate, quella della città di Lund di chiudere il parco cittadino e l’orto botanico il 30 aprile in occasione della notte di Valpurga, un festival che, come spiega Emma, ogni anno attrae migliaia di persone, soprattutto studenti, da tutta la Svezia e che sarebbe quindi stata un pericoloso veicolo di contagio.

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