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Dai “luoghi della cura” alla cura dei luoghi, quando si ascoltano i bisogni delle persone

Il caso di Trieste, spiegato in un format promosso dalla Fondazione Feltrinelli


Negli ultimi 20 anni le regioni italiane hanno tentato di adottare diverse soluzioni combinando medicina ospedaliera e territoriale e, nel caso specifico di questi mesi di pandemia, secondo gli esperti le risposte migliori sembrano essere arrivate proprio dall’ambito territoriale, sia per quanto riguarda il monitoraggio dei casi sia per la cura dei pazienti.

Proprio di questi temi ha trattato il primo appuntamento del ciclo di incontri: “Atlante dei territori – I luoghi della cura da reinventare – Prossimità/Distanza”, promosso dalla Fondazione Feltrinelli in collaborazione con DATsU – Politecnico di Milano e in partnership con Poste Italiane.


Partendo anche dal delicato momento post emergenza sanitaria, focus dell’incontro il tema della salute come diritto fondamentale individuale e di interesse collettivo.


Salute intesa però non solo in senso “sanitario”, ma come spiega in un breve video introduttivo la filosofa Laura Boella «anche come esperienza personale e intima. Indicatore di uno star bene, termine che si amplia a quelle esperienze non solo di riscontro fisico, ma anche di rapporto con gli altri e con il mondo».

Il caso di Trieste. Primo intervento quello di Maria Grazia Cogliati Dezza, medico psichiatra, che ha raccontato dell’esperienza del progetto delle Microaree nel territorio triestino, in quelle zone periferiche extraurbane dove gli indicatori di salute, da sempre, evidenziano una situazione molto più critica che altrove nella città. Da qui è partita la collaborazione di Ater con il Comune di Trieste per intervenire in 17 microaree, per un totale di 20mila abitanti. A inizio progetto nel 2006, le aree d’intervento erano in tutto otto. Racconta la dottoressa Cogliati Dezza «per ciascuna di queste zone è stata individuata una sede a livello di strada e l’azienda ha distaccato un operatore sanitario e due figure di portieri sociali. Ciascun polo è inquadrato nella struttura del distretto sanitario. Se quando si va in ospedale, si deve arrivare il prima possibile a una diagnosi e l’oggetto dell’intervento è la malattia, in questo caso c’è un ribaltamento e oggetto primario d’intervento è la persona. Nulla qui è scontato, tutto dipende e cambia proprio dal paziente. Questa esperienza – prosegue – l’abbiamo avviata facendo leva sullo spirito di comunità e sulla necessità di perseguire un livello di coesione sociale: il cittadino si rende utile per la comunità, creando un riconoscimento reciproco e lo sviluppo di quel capitale sociale che è il benessere collettivo».

I limiti della centralizzazione ospedaliera sono molti, come commenta il professor Giovanni Carrosio, dell’Università degli Studi di Trieste «Le aree cittadine più centrali e quelle periferiche sono luoghi diversi perché quelle interne sono territori distanti dai poli nei quali si concentrano i servizi, e vanno così a generare una vera e propria “trappola della marginalità”, composta da bassa densità abitativa, con molti anziani e poca natalità. Questo a sua volta da il via a un circolo vizioso tra l’urgenza d’intervenire e la necessità di razionalizzare l’ubicazione della sede dei servizi». In questo senso l’Italia si muove seguendo due approcci differenti «quello dominante, che ha ospedalizzato la salute anziché lavorare sulla relazione, allontanando i luoghi dei servizi dai territori. E poi c’è l’altra visione, quella che guarda ai contesti territoriali, dunque alla deospedalizzazione, non come venir meno del servizio su quei territori ma come possibile modo di diffusione capillare del servizio, arrivando fino alle abitazioni delle persone».


Fondamentale dunque la difesa della presenza di una struttura che dia il senso della tangibilità del servizio medico sul territorio, immettendo figure professionali che facciano da “cinghia di trasmissione”.


E in generale qual è il ruolo delle città? Risponde il professor Massimo Bricocoli del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani, Politecnico di Milano. «Occorre riorganizzare il modo in cui si combinano luoghi e persone, partendo dal concetto che, rispetto all’aspirazione del welfare di essere universale, lo spazio è in realtà diseguale per definizione. Bisogna approcciarsi a una definizione di salute che guarda ai luoghi, per mettere in gioco l’accesso uguale per tutti agli stessi diritti. In questo senso va pensato un ribaltamento, dai luoghi della cura, alla cura dei luoghi, affinché gli effetti si riscontrino poi sulla salute degli abitanti di quel territorio. Territorializzare significa parlare di spazi fisici e guardare da vicino, avere una lente di ingrandimento per bisogni che sono ancora inespressi».

 

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